Arresoias e Gorteddus
Si crede comunemente che la Sardegna sia una regione di contadini e pastori, di gente cioè legata alla terra ed alla natura, che non ha mai saputo emergere nel campo della tecnica; invece, è bene sapere che nel passato gli artigiani isolani si distinsero con originalità e talento, proprio nel settore delle invenzioni, ideando e realizzando macchinari e utensili, armi e mezzi meccanici, che tuttavia non ebbero una pratica applicazione, né una diffusione fuori dell'ambito regionale. Durante il fiorire della civiltà nuragica, si sviluppò un'industria estrattiva e fusoria che diede una rilevante produzione di bronzi, strumenti da lavoro e armi di fogge caratteristiche. Le officine potevano appartenere all'intera comunità tribale, come avveniva per le grandi fornaci di Ortu Còmmidu e del Sarcidano, oppure erano di proprietà di famiglie specializzate nell'arte dei metalli. Tutto l'arredo domestico e guerriero in bronzo era realizzato da imprenditori locali, esperti anche nelle creazioni di un'arte plastica, che sorprende ancora oggi per la sua originalità l'attenzione degli studiosi. Da queste antiche officine, che per gli stampi uttilizzavano forme di steatite tratte dalle rocce verdi della Corsica o dalle cave di talco del Nuorese, uscirono accette, scuri, pugnali, spade, scalpelli, seghe, martelli, aghi e bracciali, arredi comuni delle genti nuragiche, abili nel trattare tutti i minerali metalliferi con sistemi ingegnosi. Non esistono fonti documentarie sul passato anche recente della coltelleria sarda e ciò naturalmente impedisce di poter delineare con chiarezza le vicende connesse all'attività produttiva. Dalle scarne informazioni disponibili gli elementi caratterizzanti appaiono comunque sufficientemente chiari. Per sgombrare il campo da una serie di equivoci, derivanti dall'uso, ormai talmente diffuso, di designare con lo stesso nome strumenti dalla foggia, dalla funzione e dall'origine del tutto diversa, appare necessario fornire alcuni brevi chiarimenti su una serie di oggetti che se a rigore non si possono definire coltelli. Si tratta di strumenti da punta e da taglio, non di uso propriamente quotidiano, che hanno costituito per lungo tempo parte integrante del costume popolare isolano: la "leppa", la "daga" e lo "stilu". La più importante e diffusa è una tipica arma da fendente, la cosidetta "leppa". Possiede una lama spesso ageminata ed incisa, ricurva, senza guardia e fornita di manico di corno, di legno semplicemente lavorato, oppure ricoperto da una lamina di ottone riccamente decorata a bulino. La forma del manico è tradizionalmente zoomorfa (testa di felino o di rapace), con una protuberanza inferiore rappresentante il grifo dell'animale, che va a costituire il necessario nasello, indispensabile per impedire che l'arma scivoli di mano portando il fendente. Queste tradizionali sciabole erano diffuse in tutta l'isola e si può presumere che fossero di fabbricazione locale, anche se è probabile che alcune delle lame, quelle più ricche ed ageminate in metalli preziosi, venissero importate dalla Spagna e poi montate in loco. La seconda arma è la "daga" anch'essa elemento tradizionale del costume maschile, ma probabilmente in passato utilizzata per scopi venatori. Non si discosta di molto dall'arma classica dallo stesso nome, presentando una larga e diritta lama con punta centrale, ad un taglio o un taglio e mezzo e fornita di guardia: l'impugnatura è formata da due sfoglie di corno o legno giustapposte e ribattute sul codolo della lama. Anch'essa era dotata di guaina, spesso rigida, cioè costituita da un astuccio di legno ricoperto da una lamina di ottone fittamente lavorata a bulino. La lunghezza di queste armi raramente superava i cinquanta centimetri; ne abbiamo un'accurata anche se non esatta descrizione in un documento della fine del Settecento. Sempre da questa descrizione apprendiamo come il luogo allora più rinomato dell'isola per la fabbricazione di queste daghe, di coltelli e in genere per la lavorazione dell'acciaio fosse Tempio Pausania. Ultimo strumento è lo "stilu", il pugnale dotato di guardia ad elsetti, a lama stretta ed affusata, spesso decisamente conica, terminante in una punta acutissima ed utilizzato anche nel tradizionale compito dell'uccisione del maiale. Altro coltello diffuso in tutta l'isola è la cosidetta "guspinesa", contraddistinta da una lama dallo spessore molto sottile, a forma rettangolare, priva cioè di punta e dotata di un manico di un solo pezzo di corno o di legno, senza molla, ma con anello di ottone all'impostatura. Questo coltello del tutto particolare, serviva essenzialmente per la lavorazione, molto diffusa in Sardegna, del sughero, dal quale gli artigiani, ma anche i pastori e i contadini, sapevano ricavare molteplici oggetti di uso domestico quali vasi, vassoi ed ogni genere di recipienti. Per concludere l'ambito dei coltelli di uso tradizionale più antico, dobbiamo ricordare la "pudatta", la classica ronchetta utilizzata per potare la vite, fornita di manico di corno o di legno e generalmente a lama fissa, anche se non mancano esemplari a serramanico. I luoghi ove nel corso del tempo si è sviluppato l'artigianato della coltelleria sono ovviamente molteplici, ma sulla base delle informazioni raccolte, è possibile delineare un quadro complessivo sufficientemente completo. Oltre alla zona di Cagliari con Quartu S.Elena, più a nord incontriamo il grande bacino produttivo costituito dai contigui centri di Guspini, Arbus e Gonnosfanadiga, ove nel passato si fabbricava, oltre naturalmente alla "guspinesa", il modello di "foggia antica". Ancora più a nord incontriamo i centri di Seùi, di Santu Lussurgiu, di Desulo, di Dorgali, di Nuoro e di Tempio Pausania, quest'ultimo probabilmente il più importante durante il secolo XVIII, ma, per chiarire meglio le modalità e l'effettiva consistenza dell'artigianato del settore in queste ultime località, sembrano necessarie ulteriori e più approfondite ricerche. Infine merita spazio uno dei coltelli italiani più belli in assoluto, la "resolza pattadese". Pattada, centro abitato del nuorese, oltre ad avere progressivamente egemonizzato l'immagine complessiva del coltello sardo, possiede l'indubbio merito di avere "inventato" la resolza pattadese. Splendida per la crudele naturalità e l'esemplare purezza delle sue semplici linee, per l'accurata armonia delle materie che la compongono e per quel sapore di arcaico nella decorazione delle guarnizioni e nel risalto dei ribattini sulla levigata superficie del corno, inquietante e schiettamente esplicita funzionalità. Il manico del coltello di Pattada nasce dalle corna del muflone e dalle corna del montone, preferibilmente da quelle nere, lavorate prima con la sega a "voltino", poi ammorbidite con la fiamma e raddrizzate con la pressione tra le due lastre di ferro. La lama a foglia, detta sa fiàma, viene forgiata tra l'incudine e il martello, a caldo, con colpi veloci e precisi, poi viene rifinita alla mola, con la lima e infine affilata con tela smeriglio e nafta. Dopo la tempera, che è il vero segreto di ciascun artigiano, si procede all'applicazione del manico della lama con un anello di ottone che tiene unite le due parti con un chiodo ribattuto. Per ultimo l'anello viene decorato a incisione con motivi che variano secondo l'estro e la fantasia dell'artefice. A Gonnosfanadiga si produce un coltello di forma diversa: con la lama panciuta, alla turca, e con l'inpugnatura di corno scuro di montone o di caprone, a doppio anello bulinato, certamente derivato dalla tipica guspinèsa o arburèsa, che era uno dei tanti caratteristici coltelli da scuoiatura, da castrazione, da marchiatura delle bestie, prodotti dai fabbri di Gùspini, di Arbus, d'Iglesias e di Villacidro. |